martedì 4 novembre 2008

ASSEMBLEA 5-11 - DOCUMENTO PROF. CECCHINI

Riceviamo dagli studenti di Architettura un documento scritto dal prof. A.Cecchini per l'Assemblea di domani 5-11: "è un documento che reputiamo possa dare il via ad una serie di ragionamenti che si potrebbero affrontare in assemblea, spero in una vostra adesione, o almeno una partecipazione anche di un piccolo numero di Voi, sarebbe un segnale importante per tutti, grazie per il vostro supporto. Valerio"

Ricordiamo che l'Assemblea si svolge al Liceo Scientifico "E. Fermi" a partire dalle ore 11.

Quel che interessa sono gli obiettivi sociali: a cosa serve la scuola?
Intanto ogni scuola pubblica va intesa - in ultima istanza - come servizio universale: il suo accesso è potenzialmente garantito a tutti, la scuola pubblica ha quasi esclusivamente obiettivi educativi, non di "addestramento"; in secondo luogo dentro la scuola pubblica va distinta la scuola dell'obbligo da quella opzionale.
La scuola dell'obbligo (tendenzialmente sino a 18 anni) ha un principale, irrinunciabile obiettivo: l'educazione ad essere cittadine e cittadini del proprio paese e del mondo, al livello in cui questo è necessario e storicamente determinato; a ciò serve "saper leggere, scrivere e far di conto" (come questo può avvenire oggi, al meglio delle tecnologie esistenti - BAT Best Available Technologies), a essere buone cittadine e buoni cittadini, capaci di ottenere il meglio da sé in relazione con le altre persone. Punto.
La scuola pubblica post-obbligo ha un secondo obiettivo che si aggiunge al primo: dare le possibilità alle cittadine e ai cittadini (da quel momento lo sono stricto sensu avendo raggiunto la maggiore età) di acquisire, nel settore di competenza da loro scelto, conoscenze specialistiche di alto livello, utili in primo luogo a livello sociale e in secondo luogo (ma insieme) per il loro interesse (in senso ampio).
Voglio forse dire che ogni forma di addestramento e di professione deve essere esclusa dalla scuola pubblica? Che l'Università non debba essere messa in condizione di programmare in maniera adeguata la propria offerta didattica? Che le studentesse e gli studenti non debbano essere orientati o consigliati sui propri percorsi? Che non debbano fare scelte che tengano conto anche delle potenzialità del mercato del lavoro? Che dentro la struttura pubblica non siano ammesse attività di formazione professionale?
Non voglio dire nessuna di queste cose.
Ma forse invece di inventarci fra i compiti della scuola dell’obbligo "l'educazione stradale" o l'"educazione ambientale" o l'"educazione sessuale" ci ricorderemo che fra le discipline (quindi dentro il curriculum!) c'è la geografia, o la giurisprudenza, o la biologia, o l'anatomia, o la storia e che per educare cittadine e cittadini occorre costruire un insieme di percorsi che attraversino le discipline e che propongano comportamenti (sicché, ad esempio, non ci si dimenticherà che la storia è anche storia dell'oppressione delle donne, è anche storia del rapporto - quasi sempre devastante - degli esseri umani con l'ambiente); ed occorre ricordare che oggi le conoscenze sono soggette ad una rapida obsolescenza: di qui l’obiettivo di “imparare ad imparare” e la necessità dell’”educazione lunga come tutta la vita” (è una traduzione sbagliata, ma mi piace di più)
Ma voglio ricordare che anche l'Università e non solo la scuola dell'obbligo è una struttura pubblica, che quindi ha obiettivi dettati direttamente dalla sua funzione sociale: la sua visione e la sua missione sono da questo carattere determinati sia per quanto riguarda i suoi compiti educativi sia - e non possono da essi essere scissi - per quanto riguarda i suoi compiti di ricerca.
Usando una terminologia in voga nelle organizzazioni riassumerei così: l’Università è un’istituzione che ha il compito di garantire lo sviluppo della ricchezza sociale in termini di conoscenze e consapevolezze; non è dunque al servizio della promozione sociale dei singoli studenti (questo può esserne – a certe condizioni – un importante ed auspicabile sottoprodotto), né delle esigenze del mercato del lavoro (da cui tuttavia non può prescindere, senza però accettare di accettarlo così come esso si dà), né tanto meno degli interessi di chi ci lavora; l’Università ha tra i suoi scopi la promozione dell’equità sociale.
In particolare la sua missione è:
• sviluppare in senso ampio ed esteso, potenzialmente universale, le conoscenze generali e specifiche e la consapevolezza democratica e civile degli studenti, rendendoli capaci di collocarsi in modo autonomo, critico e consapevole, al livello massimo di eccellenza possibile, all’interno della vita del paese e del mondo;
• sviluppare la ricerca libera e creativa, pura ed applicata, sulla base di criteri e di obiettivi di interesse pubblico;
• realizzare prodotti e servizi di qualità, che pur collocandosi nel mercato, non vengano mai meno ad obiettivi di equità e di interesse collettivo.

Nell’Università questi obiettivi possono essere raggiunti premiando il merito: io non amo il termine meritocrazia, l’unica -crazia in cui credo è la demo-crazia, ma sicuramente, una volta assicurato il carattere non classista dell’accesso all’Università, il criterio cui ispirare la valutazione degli studenti è quello del merito, così come è sulla base del merito che vanno reclutati e promossi i ricercatori ed i docenti.
Tuttavia definire cosa sia il merito non è semplice, e tuttavia in qualche modo va fatto.
Ad esempio gli esami sono una forma di valutazione del merito, ma non sempre funzionano bene gli esami scritti, non sempre gli orali, non sempre è possibile valutare bene la qualità di un progetto; ad esempio le pubblicazioni e gli indici basati su di esse sono una forma di valutazione del lavoro dei docenti, ma non per tutte le discipline è facile trovare indici efficaci; ad esempio le valutazioni da parte degli studenti sono un criterio utile per stimare la qualità della didattica di un docente, ma sono evidentemente molto parziali, e così via.
In particolare le semplificazioni di cui è maestro il Professor Brunetta e in generale gli esponenti del Governo a partire dall’avvocato Gelmini sono un pessimo modo di tener conto dei problemi complessi del lavoro nella Pubblica Amministrazione.
Ci sono “fannulloni” all’Università? [Era più difficile far digerire alla pubblica opinione che ci fossero “fannulloni” tra le maestre, anche se ci hanno provato] La risposta è sì.
Ci sono “baroni” all’Università? La risposta è sì.
C’è nepotismo all’Università? La risposta è sì.
C’è cattivo uso delle risorse all’Università. La risposta è sì.
Ma la domanda è: servono i tagli indiscriminati ad affrontare e risolvere questi problemi? La risposta è no.
Tutti questi problemi hanno origini lontane e molteplici cause e non possono essere risolti in modo semplice, anche se vanno affrontati in modo radicale e da subito.
Ma accanto a questi problemi ce ne sono altri (che in parte, ma solo in parte, dipendono da questi)
C’è il problema della precarietà, le Università scomparirebbero senza il lavoro precario di assistenti, collaboratori alla didattica, contrattisti, sia nelle funzioni docenti e di ricerca che in quelle tecniche ed amministrative: quale futuro per questi precari?
{E qui si apre una questione: il “pensiero unico” dominante ha fatto entrare nelle mostre teste una doppia eguaglianza quella tra flessibilità e precarietà e quella tra precarietà e bassa remunerazione; partendo dall’affermazione in parte vera che serve più flessibilità questa doppia eguaglianza ha portato a …}
C’è il problema del “diritto allo studio” e qui voglio ricordare a tutti un’amara verità: la nostra Università è ancora un’ Università di classe, che privilegia in molti sensi chi proviene da famiglie di elevato status socio-economico e culturale; il dettato costituzionale (art. 34) imporrebbe più forti interventi per sostenere in tutto il percorso scolastico i “capaci e meritevoli anche se privi di mezzi”; per l’Università questo significherebbe borse di studio consistenti e servizi di qualità (oltre che un sistema fiscale equo ed efficiente).
C’è un problema di risorse per la didattica e la ricerca; risorse che in Italia non vengono in misura importante dal settore privato neppure alle Università più forti e collocate nelle aree più forti: inoltre è il settore pubblico soltanto che può avere la lungimiranza di sostenere discipline importanti, ma non immediatamente redditizie (dal sanscrito alla filosofia), e la ricerca di base.
C’è il problema dell’apertura internazionale, di avere studenti italiani che studiano anche all’estero e studenti stranieri che studiano anche in Italia.
C’è il problema legato alla moltiplicazione delle sedi universitarie sino a ricoprire l'intero territorio, il che (con l’assenza in interventi per il diritto allo studio) ha contribuito in molti luoghi alla scomparsa della "categoria" dello studente universitario, eliminando i fuori sede e trasformandoli in pendolari.
C’è il problema della proliferazione dei corsi di laurea insensati e senza futuro e senza passato: posso capire che ci debba essere un corso di laurea in lingue orientali anche con pochi studenti (ecco perché serve sempre distinguere), ma la proliferazione dei corsi di laurea è stata impressionante e ridicola.

Credo che tutti i governi della sedicente seconda Repubblica siano stati malevoli, a volte persino in buona fede, verso la scuola e verso l’Università, ma credo che per la prima volta questo governo abbia definito un preciso disegno di smantellamento della scuola pubblica nel suo insieme; un disegno che si accompagna ad una riduzione del peso e del rilievo dei diritti di chi lavora in ogni campo.
Vedete a me i notai non sono simpatici, i farmacisti e i taxisti un po’ di più, ma non tantissimo, poco i piloti e molto le hostess, moltissimo i metalmeccanici e così così i camionisti, nel pubblico impiego mi piacciono le maestre e i maestri e i bibliotecari, meno gli impiegati della motorizzazione, dei giornalisti ne salverei meno del venti per cento, e sono convinto che in alcune di queste categorie ci siano privilegi o nicchie di fannulloni (tra i metalmeccanici e le maestre, molto meno), ma non mi convince l’aggressione mediatica e culturale verso chi lavora, un’aggressione che risparmia tronisti e procacciatori d’affari, soubrette e bancari, speculatori ed opinionisti in TV, ladri e mignotte di regime, manager con stock options e portaborse (per ciascuna categoria posso fare nomi e cognomi): chi lavora va rispettato e se ci battiamo perché non abbiano privilegi è perché vogliamo che abbiano diritti.

Proprio per questo, perché credo che vi sia un unico “disegno criminoso”, credo che dobbiamo prepararci ad una mobilitazione di lungo periodo con alcuni punti fermi: un’unica battaglia per tutta la scuola, più risorse per tutta la scuola, meno precarietà.
Una mobilitazione che dovrà avere abbastanza fiato da resistere a lungo: per questo credo che dobbiamo lavorare in profondità e con calma (lentius, profundius, suavius, oltre che, o invece che, citius, altius, fortius): come istituzione possiamo assumere questo ruolo, affiancare le mobilitazioni di studenti, precari e docenti, facendo un po’ da “segnatempo” e da “allenatore personale” del movimento.

Non importa per chi abbiamo votato in Aprile (qualunque voto abbiamo dato è stato o inutile o sbagliato o entrambe le cose), importa che ora ci mettiamo in movimento, con un’unica bussola, quella della Costituzione, nata dalla Resistenza e quindi della difesa intransigente della scuola pubblica, la “scuola di tutti”.

ABC

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